INTERVISTA – Renzo Musumeci Greco: la scherma tra Cinecittà e Hollywood

«È come giocare a scacchi a 200 all’ora». Con questa frase Renzo Musumeci Greco racchiude l’essenza della scherma. «È un insieme di scienza e tecnica combinata alla fantasia e all’estro della mente. Hai difronte un avversario, bisogna decidere la mossa in centesimi di secondo, essere fulminei nel ragionamento da tradurre in un gesto atletico. Senza far capire il proprio pensiero».

È uno dei più importanti maestri d’arma a livello globale, erede di una famiglia che da oltre 160 anni scrive la storia di questa arte. L’Accademia d’Armi Musumeci Greco sorge a pochi passi dal Pantheon a Roma e da lì sono passati capi di Stato, olimpionici e grandi artisti. Merito di avvicinare la scherma allo spettacolo fu Enzo Musumeci Greco, suo padre, che nel 1939 iniziò a collaborare con il grande cinema da Cinecittà a Hollywood.

Tra la scherma e il cinema c’è un bel rapporto…

«È un rapporto ciclico. A partire dagli anni 20, con l’avvento dell’audio nel cinema, e fino agli anni 60, c’era un legame strettissimo. All’epoca erano molto in voga il duello, il genere cavalleresco, i film in costume. Negli anni 70 il tutto si è affievolito, il genere è passato di moda, al cinema andava più la commedia o altri generi, per cui noi abbiamo spostato l’attenzione su altri generi di spettacolo come il teatro e l’opera critica».

È stato sul set di “Ben Hur”, cosa ricorda di quella esperienza?

«Avevo 6 anni, mi ci portò mio padre che lavorava su quel set. Non capivo bene quello che succedeva, assistevo a galeoni nella piscina di Cinecittà che simulava un mare in tempesta, a cavalli e bighe. Tutto quello che avevo visto dal vivo per mesi, si è tradotto in un film che andai a vedere al cinema. E lì ho subito un fascino incredibile, mio padre mi trasmise così una malattia incurabile, terminale, me la porto appresso. Qualcosa che ho attaccato a mio figlio, quando lui aveva 14 anni siamo stati un mese sul set della serie “Caravaggio” con Alessio Boni, girato a Belgrado ma ambientato nella Roma rinascimentale, con Storaro che ne curava la fotografia. Fu colpito anche lui da questo fascino. Ora lavora come assistente alla regia».

Qual è stato lo spettacolo che le ha regalato più gioia?

«Sicuramente “Il trovatore” diretto da Franco Zeffirelli. Nel 2001 alla prima all’Arena di Verona quando salimmo in scena per i saluti finali fummo accolti da 15 minuti di applausi da parte di 15mila spettatori. Fu il riconoscimento di un grande lavoro. In scena portammo una battaglia che coinvolgeva oltre 100 attori. Ricordo con piacere anche un “Otello” con Placido Domingo».

E l’attore che le ha dato più soddisfazioni?

«Sono tre: Alessio Boni, Massimo Ranieri e Roberto Bolle. Boni sapeva fare poco, abbiamo fatto tre mesi di preparazione e un lavoro straordinario. Ranieri aveva già lavorato con mio padre, era già forte fisicamente e pronto tecnicamente. Bolle, invece, aveva una maestria nel portamento e una grande prestanza».

Chi sfiderebbe a duello?

«Sfiderei gli imbroglioni, gli usurpatori, mi sento come Robin Hood, ho lo spirito cavalleresco, quello puro, quello che di chi rischia la vita per proteggere i più deboli».

(Articolo pubblicato sul numero di marzo 2019 di Cultura Identità)